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Una carissima amica piemontese mi dice che le ho preparato una Pasta al pesto genovese indimenticabile, eccependomi però: “Peccato fosse un po’ cruda!”.
“Mi dispiace ma così si fa – ho replicato – perché altrimenti non si chiamerebbe pasta ma pasta squarata”.
“Squarata? Cos’è la squarata?”.
L’etimologia, senza scomodare il sempre più che complesso latino, deriva da squa, cioè squallida e da rata cioè errata. Si tratta evidentemente di un’interpretazione etimologica che gode di suggestiva libertà semantica ma efficace e utile a scolpire la precisione di un concetto. Peraltro, è acclarato in sede scientifica che il consumo della pasta squarata nuoccia, se non gravemente, abbastanza seriamente alla salute. Nel merito rinvio ad ogni utile e attrezzata documentazione, rilevo in questa sede soltanto due considerazioni, direi inoppugnabili: la pasta scotta comporta perdita delle proprietà nutrizionali, mentre la pasta al dente contiene un basso indice glicemico.
La traduzione dialettale più corretta di pasta squarata, mi suggerisce un’altra amica palermitana, è pasta non condita. Non posso darle del tutto torto, ma è diffusa in Sicilia, e la faccio mia, l’estensione linguistica all’evidenza di una pasta scotta e mal condita.
E torno a far visita all’amica piemontese: “l’indimenticabile” della mia pasta al pesto è soprattutto da ricercare nel come si fa la pasta.
Un buon pesto si può fare con semplicità ma l’arte del fare la pasta è un’altra cosa, riguarda appunto, e in generale, il saper fare la pasta, che si compie ed armonizza nell’incrocio di alcuni elementi fondamentali: qualità del prodotto pasta, sua cottura, salinità, peposità, un mix sapiente; e poi l’arte: mano, modalità e tempi del cuoco padrone dei fornelli.
Ho dunque un consiglio rivolto all’universo mondo. Lo esprimo in modo diretto e semplice: “Per favore non ‘nquietate (per chi non ha ancora studiato la terza lingua mondiale, il siciliano: “non disturbate”) i prodotti autoctoni di ogni parte della Sicilia, come del pianeta Terra, sono tanti e specifici quelli di alto livello”.
Sono tanti gli esempi ma uno per tutti: la Pasta con le sarde, alla quale è stato fatto un affronto: intrugliarla con il sugo di pomodoro, cosa vietata per elementari ragioni di buona cucina e tradizione. La base acida del pomodoro disturba il risultato del piatto. Nulla ha a che fare con profumi e sapori precisi e delicati degli ingredienti tradizionali. U sucazzo lo denominava, in chiave dispregiativa, un personaggio panormita delle mie storie della Trilogia. Secondo la cui nobile e fondata tesi, u sucazzo è utile a mettere in qualche modo insieme elementi mediocri, da aggiustare;
da qui molti tortini casarecci che con la buona cucina non hanno nulla a che fare. Il sugo di pomodoro può invece esaltarsi nella semplicità: il più classico degli esempi? Una buona spaghetti al pomodoro, magari con una foglia di basilico e del buon olio d’oliva.
È insomma sempre categoricamente vietato il pomodoro con il pesce di qualità o dai sapori di forte personalità come la sarda.
Cari conterranei dediti al sucazzo e all’intruglio, dedicatevi con passione ai piatti vostri. Per capirci, io, il Cous cous di pesce, vado a mangiarlo nel trapanese e mi risparmierete di spiegare le ragioni, come la Granita di limone la mangio nel messinese, e non c’è niente da spiegare.
Ai piemontesi consiglio di fare altrettanto, ad esempio con un’eccellente Bagna caùda. Esperienza per donne e uomini dai sapori al tempo forti e raffinati!
È doveroso precisare che la pasta fatta come si deve si mangia in tutto il sud d’Italia e quindi a Palermo, come a Napoli, come a Lecce, ormai anche al nord, meridionali everywhere. È il mio caso, palermitano, residente a Torino da 50 anni, ma che non ha perso la buona educazione ricevuta dalla famosa Nonna Concetta e da Papà Gioacchino ai fornelli.
Ho studiato a lungo i loro gesti. Mi pregio soltanto di celebrare e onorare al meglio che posso quell’arte e quella religiosità in cucina.
Un tempio, fatto di sfumature. Ne ricordo una con particolare affetto. Mio padre, nei momenti di pausa del cucinare, lavava, un po’ alla volta, piatti e stoviglie non più necessari all’uso. Secondo lui il tempio della cucina doveva essere sempre lindo, e il piatto, a compimento dell’opera, doveva nascere nell’ordine di una scintillante cucina.
E penso sia giusto ribadire che nella vita, come in cucina, avere fede, credere, non è tutto ma è un atteggiamento, una postura, che avvicina alla buona meta.
Insomma, come il Dalai Lama esorta i credenti a praticare la propria religione di nascita, a cui ognuno è stato educato e da cui ha ricevuto il senso delle tradizioni, del bene e del divino; lo scrivente, molto umilmente e mutatis mutandis e senza intento di confondere sacro e profano, esorta ognuno a seguire le proprie tradizioni e competenze culinarie, non escludendo l’impegno alle novità ma con quell’opportuno rispetto alla paternità e alla regola dei tanti prodotti d’eccellenza.