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Come osserva Paolo Mieli, in gran parte del mondo occidentale sono state per lo più le donne conservatrici ad infrangere il famoso “soffitto di vetro” in politica. L’ascensore sociale, infatti, è sempre partito dai piani più alti ed è sempre salito più velocemente per chi – privilegiato dal fatto di essere nato nella “culla giusta” – abbia saputo cogliere le opportunità offerte da una condizione di partenza migliore. Senza dubbio, l’aver goduto delle migliori opportunità sociali costituisce un vantaggio che marca differenze spesso incolmabili e condiziona la raggiungibilità di molti approdi professionali. Il percorso lavorativo di Giorgia Meloni però non ha seguito affatto questo paradigma. Giorgia Meloni si è fatta “da sé”. Aveva appena un anno quando il padre decide di abbandonare la famiglia: era il 1978. La Meloni non parla mai di “dolore”, ma ammette più volte di aver dovuto fare i conti con l’assenza della figura paterna. Cresce, quindi, in una famiglia composta da sole donne: sua sorella Arianna e sua madre Anna, capofamiglia e “lavoratrice instancabile”. Giorgia prende esempio da lei. Si rimbocca le maniche: si iscrive al corso di laurea in scienze politiche, che non terminerà, lavora come cameriera, studia diverse lingue. Il resto è letteralmente storia. Nel 1992, nel bel mezzo del più grande e imbarazzante scandalo italiano, mentre tutto il mondo aveva gli occhi puntati sui più famosi uomini politici dell’epoca, lei, sconosciuta, femmina e appassionata, a soli quindici anni, prende posto in silenzio tra le schiere del “Fronte della gioventù”. Fonda un coordinamento studentesco: “Gli Antenati”; nel 1996 viene eletta responsabile nazionale di Azione Studentesca, fino ad arrivare nel 2012, ancora giovanissima, a fondare il suo partito. Dal nulla. È così che il 25 ottobre 2022, viene proclamata prima donna Premier italiana e, aggiungo, emblema vivente di chi ce l’ha fatta. Esempio formidabile per ogni femminista che punta ad emanciparsi, ad arrivare “in alto”, indipendentemente dalla fede politica professata. La sua vittoria è il frutto di grande tenacia e costanza, ma anche della sua capacità comunicativa. In piazza come sui social la “voce” della Meloni è perfettamente riconoscibile. Parole semplici, niente termini aulici o sofisticati. Su Instagram presenta il suo “sé” virtuale con grafiche ariose e pulite e colori accesi, così come piace alla generazione dei millennial. Il web è un mezzo formidabile per rendere virali i suoi tormentoni: da “Ollollanda” a “Io sono Giorgia”, frase che diventerà dapprima una canzone da ballare in discoteca, e poi il titolo del suo ultimo libro. Straordinaria la capacità della Meloni di trasformare qualsiasi mezzo atto a screditare i suoi discorsi politici, in un’arma a proprio vantaggio. Così, mentre folle di giovani appartenenti alla comunità LGBTQ+ la prendono in giro in discoteca, ballando e cantando a squarciagola, il suo remix, lei, con il cocktail in mano – invece di indignarsi, di ribattere, di pretendere di essere presa sul serio, (come forse avrebbero fatto molti altri politici italiani) sorride. “È una buona notizia”, dice ai giornalisti del Corriere della sera, “Se finisco in un remix – anche se montato per contestare le mie idee – in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?”, “Lo cantano anche le mie nipoti”. Riesce così a disinnescare un’altra polemica ed anche a trarne un enorme beneficio: la crescita esponenziale della sua popolarità. Si affeziona al tormentone, ne fa un vanto, riesce ad internazionalizzarlo. Ripete infatti le stesse parole, due anni dopo a Madrid, durante il congresso di Vox: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy madre, soy cristiana”. Ed è subito, di nuovo, remix. La Meloni vuole parlare a tutti. Così “consegna il fascismo alla storia” in quattro lingue diverse. Così si prodiga a trovare il linguaggio giusto per ogni generazione. Tenta il dialogo persino con gli “Z”, su TikTok. La sinistra, va detto, non prova nemmeno ad approdare su questa piattaforma popolata in gran parte da under trenta. Fatto strano, se si pensa ai temi che stanno a cuore a questa generazione: inclusione, diritti LGBTQ+, sostenibilità, ambiente ecc.., temi semmai più coerenti con l’elettorato progressista. Chiaramente la Meloni, per instaurare un dialogo con i giovani, non può di certo mostrare un improvviso interesse per queste tematiche. Punta quindi al valore della coerenza – che gli z. apprezzano – e dimostra di saper fare autoironia. Non si prodiga in imbarazzanti balletti, ma riesce a spopolare comunque con l’ormai celeberrimo video con i meloni in mano. Autocitandosi, tra l’altro: si era fatta ritrarre nella stessa posa già nel 2013. Sa benissimo che su TikTok chi è troppo “impettito” non fa view. Giorgia, invece, riesce ad essere sempre pop. Sia quando è online, sia quando è off. La sua immagine analogica è semplice: orologio sportivo, completi comodi, scarpe basse, viso “pulito”. Si è fatta strada, senza spacchi e tacchi, fino a salire al governo accanto a due alleati uomini. È riuscita a fare del suo essere madre non solo un vanto, ma anche un punto di forza: una “skill” preziosa nel suo curriculum di premier. “L’Italia ha bisogno di essere governata con amore, come si cresce un figlio”, dice. E pubblica su Instagram i teneri complimenti della sua bimba dopo la vittoria alle elezioni, facendo leva sul lato emozionale del suo elettorato. Desidera di essere chiamata “Il” Presidente: che dire? È una provocazione coerente con quello che è sempre stato il suo pensiero sul punto e, forse, una scelta comunicativa strategica che merita un approfondimento più ampio. Io, per ora – da giovane femminista che non l’ha votata e che nemmeno condivide le sue battaglie politiche – la osservo, prendo appunti, e mi sento incoraggiata a farmi strada in un mondo di maschi.