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Mangiare vuol dire gustare i cibi. A questo principio si richiama, più o meno sistematicamente, Antonella Clerici, che da anni conduce forse l’unica trasmissione di “cucina” che riesca ad essere  garbatamente vivace. Quel che basta per creare un’atmosfera adatta alla festa del “tutti a tavola”.

Trovo che”mangiare vuol dire gustare” sia giustissimo, per ragioni tutt’altro che banali. I best seller creati da Harari sulla complessa vicenda che riguarda l’uomo, a partire dagli ultimi millenni del paleolitico, hanno messo in luce quanto difficile sia stato compiere i primi passi verso quella che chiamiamo “civiltà”. E siccome il passato pesa sul presente, è interessante scoprire come, anche a prescindere dagli studi di Harari, i paleontologi abbiano scoperto che il rapporto che Sapiens ha col cibo non è affatto facile. Rispetto a certi suoi competitori come orsi, lupi e altri predatori, Sapiens deve trattare, cuocere la carne e altre pietanze o col fuoco, o con sostanze adatte quali il sale, l’aceto, l’olio, il limone. Per lungo tempo i nostri progenitori si sono nutriti di carne solo quando erano affamati, tanto poco certi cibi sono digeribili per l’uomo che, se non li lavora in qualche modo, rischia perfino la vita. 

Questo spiega la solennità del rito durante il quale consumiamo il cibo. La tavola imbandita, la tovaglia e le stoviglie pulite, un’atmosfera conviviale e il pranzo può dirsi servito. Si aggiunga il fatto che la tavola taglia la figura umana, la parte inferiore che più ci fa somigliare agli altri animali nascosta quasi invisibile sotto al piano dove, ancora nel passaggio dal Medioevo all’età moderna, si gettavano i resti per i cani. La parte superiore del corpo, che, per inveterata tradizione, si considera  la più nobile, si mostra agli altri commensali. il volto è scoperto, le spalle dritte, le mani poggiate in bella vista a impugnare le posate o a porgere cortesemente agli altri quanto desiderano. Se ne conclude che mangiare è per noi un atto di sacralità. Atto che dalla cultura pagana è trapassato a quella cristiana. Le nozze di Cana e l’Ultima cena sono due eventi importanti nella narrazione dei Vangeli.

C’è chi prega prima di assaporare il cibo ed era uso un tempo offrire alla divinità le primizie, uso che s’è conservato nella pratica del “fioretto”.

La conversazione dovrebbe elevarsi con motti di spirito, battute scherzose e vivaci. Il tutto con un certo garbo e una certa compostezza e qualche educato commento sulle pietanze che si gustano. Sia alla tavola dei ricchi signori, sia alla mensa più modesta e frugale dei poveri.

E vengo al punto. A Roma c’è l’ammonimento severo “parla come magni” che può avere più significati. Il primo è che si dovrebbe parlare allo stesso modo in cui si mangia, per cui a Napoli i maccheroni sono anche le colorite espressioni locali. Il secondo che si dovrebbe parlare quando ci si siede a tavola, anche perché “a tavola non si invecchia”. È sacrosanto. È però sacrosanto anche mangiare le pietanze tipiche del luogo in cui ci si trova e sforzarsi di parlare la lingua che a quel cibo corrisponde.

Da italiano, a cui piace fare onore alla dieta mediterranea che nella sua autenticità si va purtroppo perdendo, non amo certi neologismi che sanno di acquisizione da altre lingue. Cosa che è imposta dal capriccio di qualche “chef” pluristellato che si picca di conoscere la cucina internazionale.

Ora passi il “buon appetito” ormai invalso nell’uso, ignorando il diverso significato che il termine italiano ha rispetto a quello francese che gli somiglia da un punto di vista fonetico ma non semantico. Per noi l’appetito è la voglia, il desiderio irrefrenabile di qualcosa. Ma pazienza! Quello che non mi va giù (l’espressione è voluta, anche se apparentemente non ricercata) è il recente uso di “impiattare”! Nella mia mente sorge l’immagine di un oste, con qualche bella patacca di unto sul grembiule, che prendendo col ramaiolo una zuppa, me la schiaffa dentro al piatto. Perfino Trinità, personaggio che non è propriamente alla pari con Lord Brummell, seduto al tavolo da poker al centro del quale si trova sia pure solo idealmente un “piatto”, sa dire quando è il suo turno di cambiare le carte, “servito!”.

Servire è un’arte, anche per questo da noi la pietanza, fumante o meno, perché sia veramente gustata con soddisfazione, si serve nel piatto.