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Fulvio Rossi, raffinato gentiluomo napoletano, ex magistrato, durante la sua vita professionale si è confrontato a lungo con ingiustizie e violenza. Ha intuito le angosce del “non detto”, ha visto da vicino il disorientamento timoroso e rassegnato di donne violentate e bambini maltrattati e ha preso atto dell’inadeguatezza dei pronunciamenti di giustizia. È fiorita probabilmente da questo suo vissuto la volontà di impegnarsi socialmente in un progetto a favore delle persone più fragili e, in particolare, delle donne, statisticamente più esposte al rischio di subire violenze. L’idea – assolutamente innovativa e destinata a diventare esemplare- si concretizza nel 2008, quando Fulvio Rossi va in pensione e fonda “La palestra dei diritti e dei doveri”, mettendo la sua esperienza professionale e la sua competenza di maestro di arti marziali al servizio delle persone più vulnerabili. Il Centro, salutato con entusiasmo dalle istituzioni torinesi e molto frequentato, riscuote un successo immediato e sempre più significativo.  “La palestra dei diritti e dei doveri”- le cui attività inizialmente si sono svolte presso i locali messi a disposizione dal Tribunale di Torino – si trova attualmente in corso Cadore 16, e ha lo scopo di offrire gratuitamente alle donne risorse e strumenti di prevenzione dei rischi di violenza, come promette il suo motto: “mai più indifese”. In questa struttura organizzata, persone di ogni età vengono aiutate ad elaborare riflessioni sulla violenza. Imparano a riconoscere gli atti violenti e a definire tali anche i maltrattamenti psicologici: quelli che non lasciano lividi sul corpo, eppure , giorno dopo giorno, minano l’autostima di chi li subisce, limitandone così le possibilità di ribellione. Le allieve della palestra apprendono anche come scoraggiare, impedire e contrastare gli atti violenti attraverso le arti marziali. Per rendere più semplice e immediato l’apprendimento di queste tecniche difensive, il dottor Rossi traduce in chiave autoprotettiva gesti abituali, ai quali è possibile attingere facilmente, perché già presenti nel proprio quotidiano. Ad esempio: il gesto di pregare giungendo le mani, per poi divaricarle all’improvviso, spiazzando così l’aggressore. Oppure il gesto di lavarsi il viso, per proteggersi prima di reagire. O, ancora, quello di muovere le spalle, come per togliersi il cappotto, per poter “scivolare via” dalla presa dell’aggressore, disorientandolo.  Questo insieme di movimenti – studiati e selezionati perché istintivi e già consuetudinari – consente alle donne di difendersi attraverso una ribellione “gentile”, agìta non per vincere, ma per non essere vinte. «Solitamente le aggressioni», spiega Fulvio, «sono commesse dal più forte sul più fragile, dall’uomo sulla donna. Certo una donna non potrebbe competere con la forza fisica di un uomo,  può però contrastarla o deviarla o sottrarsi ad essa, sfruttando  l’elasticità dei propri movimenti. L’uomo è più goffo, più rigido rispetto alla donna. La sua  è una “prevaricazione presuntuosa”, per così dire.» E spiega che “le donne dominano meglio la loro  gestualità”. Possono quindi imparare a difendersi “per impedire che, dopo il primo imprevisto attacco dell’uomo, ve ne sia un secondo: più pericoloso e, talvolta, fatale. Non si tratta di vincere, è sufficiente fermare il gesto aggressivo, ad esempio: la mano armata di coltello pronta a  sferrare l’attacco. Una difesa proporzionata all’offesa» specifica Rossi, da buon giurista, «che dovrà arrivare, per così dire,” prima del prima”, cioè prima che sia troppo tardi». Dovrà essere attivata con tecniche in grado di trasmettere all’aggressore un messaggio assertivo e spiazzante: cioè «che l’uso della violenza è sconveniente». È convincente, Fulvio Rossi, quando assicura che «Il dominio fisico può essere contrastato da una risposta che non sia necessariamente fisica, ma soprattutto psichica». Quindi, che rapporto c’è tra violenza fisica e violenza psicologica? «La violenza» si sviluppa sulla base del dominio fisico, imposto con la forza. Questa prevaricazione, però, si trasforma inevitabilmente in un dominio anche psichico.  In un primo momento l’uomo violento svaluta la donna e, poi, la induce a trasformarsi da svalutata a svalutante verso se stessa». Quella di controllare e dominare le donne attraverso la forza fisica, secondo Lei, è una caratteristica insita nel genere maschile? «La donna è stata il primo territorio di colonizzazione da parte del maschio: non ci sono dubbi su questo. Che cosa è stato, ad esempio, il Ratto delle Sabine se non una rapina di uteri su due gambe delle donne?». Non pensa però che oggi questa cultura della violenza sia oramai quasi del tutto scomparsa, almeno in Italia? «In Italia c’è ancora una subcultura che io definisco” italo-talebana camuffata”: quella di chi vuole apparire democratico, ma in realtà si comporta in modo estremamente violento nei rapporti di genere. Penso che la nostra cultura sia in apparenza molto evoluta, ma sostanzialmente continui a rifarsi ad una preistoria paternalista quando considera la donna come un’ancella. Nella nostra società i princìpi dell’equilibrio di genere sono proclamati con molta chiarezza a livello teorico.  Ma esistono ostacoli concreti, pregiudizi culturali e discriminazioni di fatto che, ancora oggi, tendono a confinare le donne in ruoli prevalentemente marginali e ancillari, piuttosto che concretamente paritari, rispetto a quelli degli uomini. Pensiamo, ad esempio, a quanto le religioni, compresa quella cattolica, valorizzino la disponibilità delle donne a donare tempo, attenzioni e cura. Tuttavia, queste stesse meravigliose caratteristiche vengono poi tradotte dalla società come conferme di subalternità in tutti i contesti: familiare, lavorativo e politico. Le donne vengono così confinate nella dimensione familiare, frequentemente a sostenere i pesi del welfare, piuttosto che in quella sociale. Ogni donna deve prendere consapevolezza di questo, per poter rivendicare appieno i propri diritti». E dunque, nella palestra dei diritti vi occupate anche di queste problematiche? «Certamente. La prevenzione della violenza passa attraverso un’educazione alla parità di genere che deve cominciare nella famiglia e proseguire attraverso la scuola, fin dai primi anni. Proprio per questo educhiamo anche i bambini a riconoscere gli stereotipi di genere, le discriminazioni e le prepotenze». Stiamo parlando di una sorta di “educazione sentimentale” al rispetto delle differenze? Con quali strumenti si potrebbe attuare? «Con strumenti adeguati ai destinatari del messaggio. Anche ai bambini piccoli si potrà parlare attraverso immagini, favole ed esercizi di immaginazione per indurre pensieri e ragionamenti. Sarà importante trovare il linguaggio adatto a gettare un seme fin dai primi anni di età. Per quanto riguarda le donne maltrattate, invece, nella “Palestra dei diritti” si continueranno ad organizzare incontri con esperti, psicologi, sociologi, medici, giuristi e operatori di polizia. E’ importante utilizzare ogni strumento funzionale a far sorgere la consapevolezza dei propri diritti: l’arte o    la letteratura ad esempio». Oltre alla sofferenza individuale di chi subisce la violenza, esistono altri costi sociali? «Occorre considerare che la violenza sulle donne non è mai soltanto un problema di “quelle” donne e dei loro familiari. Si è calcolato che il costo socioeconomico delle violenze di genere in Italia si aggira su 17 miliardi di euro all’anno. Dividendo questa somma per trenta milioni di persone che producono reddito, arriviamo a circa 450 euro all’anno che paghiamo noi cittadini. La violenza, dunque, costa. E questi soldi potrebbero essere meglio spesi per sovvenzionare centri antiviolenza, corsi di educazione e di recupero. Altrimenti dovremmo paradossalmente parlare di un “Criminal welfare”, alimentato proprio dalla violenza. Uno Stato moderno non può disimpegnarsi rispetto a queste problematiche». Allargando lo sguardo, che cosa ne pensa della rivolta delle donne in Iran? «Il fenomeno della rivoluzione delle donne iraniane è reso oggi possibile dal fatto che, in quella parte del mondo, le donne hanno sempre potuto studiare. Il livello culturale di donne e uomini è molto elevato e la straordinaria solidarietà che questi stanno dimostrando, nei confronti delle donne, deriva dal fatto che anche essi studiano fino ai livelli più alti, fino all’università. Il seme della lotta per l’affrancamento da regole che i giovani iraniani sentono antistoriche, non è stato portato lì da noi occidentali. È germogliato sul terreno fertile della cultura millenaria di cui oggi quei ribelli – così coraggiosi da mettere a repentaglio la propria stessa vita – sono consapevoli». Che esito potrebbe avere questa lotta, a suo parere? «È molto più che una rivolta: è paragonabile alla Rivoluzione Francese. Penso che avrà un esito felice. Costituisce un esempio per tutti e tutte e trasmette il messaggio di cogliere le opportunità che la vita offre, avendo la cultura e la consapevolezza dei propri diritti e gli strumenti per rivendicarli.