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L’intera la politica estera statunitense, nei suoi oltre due secoli di storia, è compresa tra due estremi che sono la dottrina isolazionista espressa dal Presidente James Monroe nel 1823 e quella interventista impostata dal Presidente Henry Truman nel 1947. Le due idee, oltre ad aver caratterizzato varie fasi storiche, sono entrate nel recente dibattito Trump-Harris e delineano il divario in politica estera, tra l’attuale amministrazione e, presumibilmente, la prossima.

Monroe stabilisce il principio secondo cui le potenze europee non sarebbero intervenute per reprimere rivolte democratiche sul continente americano (tutto, inclusa l’America del Sud), avendo gli Stati Uniti come garanti. In cambio gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti nelle questioni europee. Bontà loro. Nel 1823 le affermazioni di Monroe apparivano quanto meno velleitarie: gli Stati Uniti non avevano la forza, in termini di numero di navi e cannoni, pura politica di potenza, per imporre alcunché. Rilevante, tuttavia, il contesto in cui fu pronunciata, quello della Restaurazione postnapoleonica in cui la Santa Alleanza ripristinava il principio monarchico sui propri domini, in Europa e non solo. La dottrina Monroe trova la sua prima netta applicazione nel 1867 con l’appoggio statunitense alla causa repubblicana in Messico e le pressioni per ottenere la fucilazione dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo. A questo principio fa seguito, nel 1904 il cosiddetto corollario del Presidente Theodore Roosevelt che, più che una matematica conseguenza, sembra invece un’anticipazione del principio di intervento. Infatti spiana la strada all’ingerenza statunitense in America Latina, dopo la conquista di Cuba, alla difesa del Venezuela dalle ingerenze europee, a Portorico, all’acquisizione di Panama, laddove se ne stava progettando il canale. In effetti il primo Roosevelt fu militarista (politica del big stick) ed interventista (formò un corpo di volontari per Cuba), sostenendo l’intervento nella Prima Guerra Mondiale. Questo non gli impedì di vedersi conferire il Premio Nobel per la pace nel 1906, per aver mediato circa la fine del conflitto russo-nipponico. Premio conferito anche a Woodrow Wilson, per aver costituito la Società delle Nazioni, dopo aver deciso l’intervento americano che pose fine alla Grande Guerra. Non sarà l’ultimo vincitore improbabile: forse a Stoccolma dovrebbero essere più cauti e conferire il premio alla carriera, piuttosto che valutare gli eventi dell’ultimo anno.

Sul fronte opposto, si definisce nel 1947 la dottrina interventista di Truman in un ormai mutato contesto internazionale. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, è chiaro che le già potenze europee hanno perso la loro centralità e che il mondo è diviso in due blocchi contrapposti Usa-Urss. La partita da giocare è quindi una sola, alla scala globale, a prescindere dallo scacchiere a cui si guarda. Gli Stati Uniti subentrano quindi alla Gran Bretagna nella politica del containment verso l’espansionismo russo che si era sviluppata sin dal Grande Gioco in Asia Centrale a fine ‘800. La dottrina Truman impone di intervenire ovunque per non cedere posizioni alla parte avversa ed è alla base delle operazioni in Corea 1950-53 ed in Vietnam.

Successivamente tutti i presidenti hanno oscillato tra le due posizioni, decidendo di volta in volta in funzione del contesto, oltre che della propria indole. In linea di massima però, contrariamente a quanto una certa parte politica italiana può pensare, i presidenti repubblicani tendono a focalizzarsi maggiormente sulla politica interna e sono quindi più isolazionisti. Quelli democratici sono più interventisti. Franklin D. Roosevelt fu decisamente interventista nella Seconda Guerra Mondiale, contrastando nettamente la posizione isolazionista espressa dall’America First Commitee di cui Charles Lindbergh era il portavoce, forzandolo alle dimissioni da colonnello dell’aeronautica.

Nel 1961 fu il democratico Kennedy ad aprire la guerra in Vietnam, poi portata avanti dal suo ex-vice Lindon Johnson; fu invece il repubblicano Nixon a porvi fine.

Bush padre, repubblicano, ordinò la prima Guerra del golfo, come reazione all’invasione del Kuwait. Clinton, democratico, intervenne in Somalia e nei Balcani abbattendo la Serbia, per l’indipendenza del Kosovo. Bush figlio avrebbe portato avanti una politica isolazionista, ma dovette reagire all’attacco dell’11 settembre, contro l’Afghanistan e contro l’Iraq. Obama, democratico, vincitore del Premio Nobel per la pace ad inizio mandato, ritirò parte delle truppe dall’Iraq, rafforzando il contingente in Afghanistan (uccisione di Bin Laden), quindi attaccò la Libia fino alla morte di Gheddafi; inoltre bombardò Yemen e Siria. Biden, democratico, ritirò le truppe dall’Afghanistan (spianando la strada alla riaffermazione talebana), ma non ha esitato ad fornire aiuti all’Ucraina e ad Israele. Rispetto a questi precedenti la prima presidenza Trump, repubblicano, appare decisamente pacifica e caratterizzata da un marcato isolazionismo che ha portato gli Usa a chiamarsi fuori da trattati internazionali già sottoscritti.

Cosa succederà adesso? Stando alle dichiarazioni della vigilia è probabile che Trump cerchi un disimpegno in Ucraina, puntando ad un accordo con la Russia che ceda territorio in cambio di cessazione delle ostilità (fino alla prossima rivendicazione da parte di Putin). Sul Medioriente il disimpegno sembra più improbabile.

Basterà questo a candidarlo al Premio Nobel per la pace? Probabilmente no, a giudicare dal passato, sembrano favoriti i presidenti democratici interventisti.