Sono cresciuta in un periodo storico, quello a cavallo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’80, caratterizzato da grandi sconvolgimenti politici e sociali. Era cominciato con le contestazioni studentesche, le rivendicazioni sull’emancipazione femminile, i movimenti pacifisti –la Seconda Guerra Mondiale era finita da venti anni appena-, passato attraverso la “guerra fredda”, che ci fece vivere sotto la paura della conquista del socialismo reale inculcata attraverso la strategia della tensione, per arrivare agli “anni di piombo”, che usando la violenza di piazza, la lotta armata e il terrorismo, segnarono profondamente la politica e la società di alcuni Paesi europei. Tutto si concluse con la caduta del muro di Berlino (1989), la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991) e un periodo di discreto benessere economico.
Impossibile per un adolescente di quegli anni non essere politicamente ingaggiato, e per una persona sensibile come me, impossibile non farsi segnare dai conflitti e dalle brutture della guerra visti alla televisione.
Ricordo i filmati di processioni interminabili di vietnamiti che abbandonavano i loro villaggi distrutti dal napalm statunitense, le immagini di Salvador Allende con le bandoliere di cartucce e il mitra in mano, che cercava di difendere la libertà del Cile, Alexos Panagulis appena uscito dalla prigionia del regime dei Colonnelli in Grecia e il corpo di Aldo Moro accartocciato nel portabagagli della Renault rossa in Via Caetani.
Indelebili nella memoria le corrispondenze di guerra di Oriana Fallaci, Mino Damato, Fabrizio Del Noce, Franco Di Mare, Giovanna Botteri, che con i loro reportage ci hanno trasportato nei conflitti di tutto il Mondo.
Ed è in questa schiera di grandi reporter italiani e in quella di molti di altri Paesi, che mi sento di includere una donna coraggiosa, Andreja Restek, che instancabilmente da trent’anni ne segue i solchi tracciati e cerca di testimoniare la verità con passione e sprezzo del pericolo.
Molto diverso il contesto sociale e geopolitico in cui hanno operato i giornalisti citati, perché nella nostra epoca la propaganda corre sulle connessioni della fibra ottica e delle onde radio e la guerra si combatte anche a colpi di notizie, oltre che con armi devastanti, che fanno apparire quelle di ieri passatempi per scolaretti; in questa moderna realtà il lavoro di Andreja Restek condanna le brutture della guerra silenziosamente ma con forza e non lo fa solo attraverso le immagini, ma anche raccontandolo con parole che scuotono le coscienze.
Nel suo libro “La solitudine della verità”, la giornalista italo-croata, da anni impegnata a raccontare i conflitti e le crisi internazionali, rivela con semplicità il prezzo altissimo che si paga per cercare e dire la verità: essere soli.
Nell’epoca dell’informazione continua ed illimitata, in cui spesso le notizie vengono divulgate senza una solida base di verifica e filtro e giungono a bersaglio in tempi infinitesimali, la volontà di fare giornalismo corretto è la prima a soccombere sotto le macerie dei bombardamenti.
Quando mi è stato chiesto di presentare il suo libro mi sono documentata sull’attività di Andreja, che conoscevo solo per nome, soprattutto per aver organizzato nel 2016 la bellissima mostra a Palazzo Madama “In prima linea, donne fotoreporter in luoghi di guerra”, che avevo visitato assieme a oltre 32.000 persone. Sono andata a ficcanasare nel suo sito ufficiale e ho scelto di non leggere nulla, mi sono affidata esclusivamente ai suoi scatti: sono stata sommersa da una gragnuola di pugni allo stomaco e ho pianto.
Non era ovviamente la prima volta che vedevo immagini di guerra, ma quello che mi ha colpito del lavoro di Andreja è stata soprattutto la solitudine. La sua, che con coraggio e incoscienza si è trovata in mezzo alle pallottole, ai rischi di essere rapita, ferita, uccisa, ma anche quella delle vittime civili e militari, lasciate sole dai Governi, abbandonate e violate da uomini che dopo millenni di conflitti, non hanno ancora capito che non è questo il modo per risolvere le questioni.
Il mio discorso può sembrare semplicistico, conosco bene le vere motivazioni che portano intere generazioni di giovani sotto un campo di croci, migliaia di civili nelle fosse comuni e città millenarie rase al suolo: l’economia e il profitto, ma nonostante abbia superato i sessant’anni, continuo a meravigliarmi che non si riesca a creare le ricchezze delle lobby della finanza senza sporcare di sangue il danaro prodotto.
Quello che Andreja dimostra nella sua battaglia attraverso le immagini, è che la verità non è mai un’opinione, ma un percorso difficile, scomodo, che si conquista sul campo, metro dopo metro. La guerra, racconta, non è solo scontro tra eserciti, ma frattura morale tra ciò che viene mostrato e ciò che accade davvero. Ed è proprio in quella rottura che si inserisce il dovere del giornalismo: ricucire i fili, restituire voce a chi non ne ha, andare oltre la narrazione imposta.
Mantenere questo proposito porta alla solitudine, pegno ineluttabile da pagare per chi sceglie di non allinearsi, di rifiutare le versioni addomesticate e giustificate da patriottismo e salvezza delle identità culturali e nazionali, per chi fa dell’onestà intellettuale la caratteristica saliente della propria attività e che viene emarginata dall’informazione mainstream, perché irriducibile. Purtroppo è una solitudine obbligatoria perché solo chi è disposto a perdere tutto può davvero raccontare cosa significa vivere e morire sotto le bombe.
Andreja le conosce bene queste cose, perché è nata nella Jugoslavia di Tito, della guerra fredda e dei grandi blocchi contrapposti di quel periodo: Nato e Patto di Varsavia, ricevendo un’educazione dura e rigorosa –racconta che a scuola c’era la materia patriottismo, tenuta da un ex generale dell’esercito, che insegnava ai bambini a smontare e rimontare gli oltre quaranta pezzi di un Kalashnicov- ed è cresciuta a pane e propaganda. La caduta del muro di Berlino e la scomparsa dell’URSS portò anche allo smembramento della sua nazione, che fu chiamata “ex Jugoslavia” e che si frazionò in sei repubbliche indipendenti, tra cui la Croazia, dove viveva. Così una mattina la ventiquattrenne Andreja aprì la finestra e si trovò sotto casa i carrarmati e imparò velocemente che la guerra può colpire anche nell’Europa uscita da quasi mezzo secolo dal più sanguinoso conflitto della storia dell’Uomo, e che devi sopravvivere ad una società profondamente disgregata dalla fine delle ideologie socialiste, dalla presenza di una molteplicità di etnie, religioni e fazioni politiche e dal nazionalismo.
Forse da qui nacque il suo desiderio di testimoniare la guerra con i mezzi che aveva: la penna e l’obiettivo della macchina fotografica.
Ho scorso sino alla fine le decine di scatti di Andreja e ho guardato l’ultima con gli occhi lucidi, al limite del pianto.
Il dolore è il leit-motiv che traspare da ogni inquadratura, perché la guerra non è mai solo di chi attacca o si difende; la paura, che si porta dietro inevitabilmente il coraggio, supportato a volte da incoscienza; la missione, cioè l’etica dell’informazione libera e giusta, difesa anche quando le volontà di chi la provoca, la guerra, spinge nella direzione opposta, perché senza verità, anche la pace diventa una bugia; la forza dirompente delle immagini, che sono condanna e violento obbligo alla riflessione per chi, come noi oggi, vive nella parte fortunata del Pianeta.
Grazie Andreja Restok, piccola donna dal corpo esile e la volontà incrollabile, che riesce a sopportare il distacco dalla figlia e dal marito per raccontarci la verità a rischio della vita, che coglie la dignità del dolore degli ultimi che incontra, dando loro voce e speranza, anche se spesso il loro futuro è spezzato dalla violenza.
Abbiamo tutti bisogno delle persone come Andreja, perché la libertà e la pace non sono beni intoccabili anche per noi, che ne godiamo da ottant’anni e abbiamo il dovere morale di proteggerli anche per quei visi e quegli occhi che lei fissa nei suoi scatti.



One of the many front lines located in the city of Aleppo
PH © Andreja Restek / APR NEWS
Aleppo, Syria

