L’abbigliamento come rappresentazione sociale
Nel suo recente saggio, “Come ti Vesti”, Andrea Batilla esplora l’abbigliamento come linguaggio: un mezzo capace di comunicare con forza e immediatezza chi siamo.
Ciò che indossiamo non è soltanto un insieme di tessuti e colori, ma uno strumento di autorappresentazione che, in modo quasi istintivo, rivela dettagli
della nostra personalità e della nostra visione del mondo.
Come ci prepariamo ogni mattina, davanti a un armadio pieno di scelte?
Ci vestiamo con disinvoltura, seguendo il flusso delle abitudini, o riflettiamo su ogni capo, plasmando il nostro aspetto a seconda dell’umore, delle persone con cui ci relazioneremo, o delle situazioni che ci attendono?
C’è chi afferma di badare alla sostanza e non all’apparenza, ma è possibile davvero ignorare l’impatto dell’immagine? “L’abito non fa il monaco”, recita il proverbio, ma il nostro aspetto può veicolare messaggi che sfuggono persino alla nostra consapevolezza. Come sottolinea Batilla, il nostro abbigliamento è un potente veicolo di autorappresentazione, capace di influenzare le percezioni altrui e, non di rado, anche la nostra stessa autopercezione.
IL POTERE SIMBOLICO DEGLI ABITI
L’abbigliamento non è solo una rappresentazione visiva, ma possiede un intrinseco potere simbolico, in grado di condizionare persino il nostro comportamento. Batilla richiama esperimenti emblematici condotti nel 2012 dai neuroscienziati Adam Galinsky e Adam Hajo dell’Università Northwestern. In uno di questi studi a un gruppo di studenti fu chiesto di indossare camici medici durante una serie di test logici e matematici, l’altro gruppo indossava invece i propri abiti quotidiani. I risultati parlarono chiaro: coloro che indossavano i camici ottenevano prestazioni migliori, come se il semplice indossare un capo evocativo di competenza e attenzione influenzasse direttamente le loro capacità.
Questo fenomeno, definito “cognizione indossata” (enclothed cognition), rivela come la nostra immagine influisca sulla nostra autostima e sulle nostre prestazioni.
La dottoressa Karen Pine, dell’Università di Hertfordshire, osservò che studenti che indossavano magliette di Superman si sentivano più forti e sicuri, ottenendo risultati superiori.
Gli abiti influenzano chi siamo e come ci percepiamo. Basti pensare alla differenza d’impressione tra una donna in tailleur scuro e un’altra in abiti dai colori vivaci: la prima appare come una manager solida e sicura, mentre la seconda evoca immagini di un’insegnante attenta e dolce. Se invertiamo i ruoli, l’impressione vacilla: una maestra troppo severa, una manager forse un po’ troppo leggiadra.
L’INFLUENZA DEL CONTESTO E DEL CERIMONIALE: LA VISIOCRAZIA
L’esperimento narrato da Peter Goodrich nel 2013 aggiunge un ulteriore tassello a questo quadro. In un contesto diverso, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di New York, gli studenti furono divisi in due gruppi per simulare un processo, ma in ambienti distinti: uno formale, con abiti togati e simboli della liturgia giudiziaria, e lpre’altro informale, con abiti quotidiani e un’aula priva di simboli.
I risultati furono sorprendenti. Gli studenti che operarono nel contesto formale giudicarono il procedimento più autorevole e il giudizio più corretto, influenzati visivamente dal rigore dell’ambiente. Quei giovani, sebbene preparati, sembravano rispondere emotivamente agli stimoli visivi, quasi subendo il fascino simbolico del cerimoniale e dell’abbigliamento formale. Questo fenomeno, che Goodrich chiama “Visiocrazia”, ci mostra come le forme, le immagini e i rituali possano imprimersi nella percezione, condizionando l’interpretazione stessa di ciò che accade. La visione del potere rappresentata da toghe, drappeggi e formule codificate ci insegna, così, che l’abbigliamento e il contesto parlano, plasmano le nostre reazioni e creano un legame profondo tra l’apparenza e il senso di autorevolezza.
Ogni scelta estetica, dunque, è parte di una narrazione, un messaggio che inviamo al mondo e che il mondo, a sua volta, legge e interpreta.