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Intervento al convegno Mario Soldati, il racconto del gusto.

Parcheggiai l’auto, una Opel Corsa color canna di fucile, a pochi metri dalla villa. A quell’ora, mi aveva assicurato la Gina, nessun vigile sarebbe venuto a darmi la multa. Il sole era ancora alto in cielo, e in controluce dalla collina di sinistra scendeva un uomo alto, dal grande naso adunco, con un panama a tesa larga appena appoggiato sui radi capelli bianchi. “Va da Mario?”. Mi venne da chiamarlo Maestro. Mi chiese come avevo fatto a riconoscerlo, e gli dissi che la mia tesi di laurea era sulla televisione delle origini, e che non potevo non ammirare Attilio Bertolucci. La Gina ci aprì al primo rintocco, e entrammo in questa casa dalla vista unica, appoggiata alla costa di Tellaro. Soldati abbracciò con il bastone Bertolucci, che gli disse che non ero con lui, ma per un appuntamento di lavoro, che lui si sarebbe fermato solo per un saluto. Avevo con me una piccola cartellina trasparente, dentro le fotocopie di quell’antico lavoro, il catalogo che Soldati aveva scritto per Venturi, il primo che facesse il punto sulle opere presenti alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, che avrebbe finalmente riaperto da lì a qualche mese. Non era facile per un ventiseienne prendere la parola di fronte a due mostri sacri, ma pensando a Soldati, che quel catalogo l’aveva scritto a ventuno, presi coraggio. “Il titolo sarà semplice: La Galleria d’Arte Moderna di Torino. Inutile fingere che sia un racconto. Il bello è che sia un catalogo e che emerga il Soldati esperto di arti figurative, appassionato di D’Azeglio e di Gastaldi, ma soprattutto di Fontanesi…”. Ne parlammo per qualche istante in piedi, appoggiati all’ingresso della grande sala da gioco adibita a sala lettura. La ricordo come il ponte di coperta di una nave nascosta nella macchia mediterranea, decine di libri ai piedi del tavolo verde e in fila alle pareti, capaci di attutire il suono e farsi desiderare. La testa e l’eloquio di Soldati ci misero qualche minuto a mettersi in moto: la memoria dello scrittore e regista ottantaseienne cercava aneddoti in una vita precedente, prima di partire per l’America, prima della guerra, prima di due mogli. La Jucci non era a Tellaro, ma a Milano, e non stava benissimo – ci comunicò in maniera lapidaria ed affettuosa. Volle notizie della Ninetta, la sposa di sempre di Attilio, e infine tornò a prestarmi attenzione. “Avrei dovuto scrivere di più di arte, invece quella mia passione prima si fece cinema e poi letteratura. Ma lei l’ha visto “Piccolo Mondo Antico”? L’ha letto Fuga in Francia?”. Avevo con me la foto di un Soldati giovanissimo, un ritratto del 1931 fuori dagli studi della Cines: gliela mostrai. “Ero un bel ragazzo, no? Magro, magro… ero appena tornato dalla Columbia University, e adoravo Roma, la sua luce. Lei è di Torino, vero? Le faccio un regalo”. Prese dalla biblioteca centrale un tomo rilegato, bianco grigio e con un tocco di arancione. Anche il volumetto che stavo preparando sarebbe stato arancione. Una specie di piccolo destino. Aprì il libro e me lo dedicò. Tellaro, 3 maggio 1993. A Paolo Verri. “Lo legga ma soprattutto lo rilegga. Torino e Roma, le due città che ho amato e che ho voluto abbandonare. Ora sono tra Milano e Tellaro, tra il profumo delle rotative e quello delle sirene”. Avrei capito molti anni dopo il suo riferimento al “Caso Motta”, uno dei suoi racconti più belli. Il sole stava per cadere e dovevo ancora tornare a Torino. Non era previsto alcun pernottamento. Gli dissi che gli avrei mandato le bozze per posta celere e che sarei tornato il mese dopo con un amico fotografo per qualche scatto e per fargli vedere la copertina. Gli proposi di aggiungere a completamento del suo testo un breve scritto di Moravia, un ritratto che il noto scrittore romano gli aveva dedicato sulla “Fiera Letteraria” nel 1954, e un pezzo più critico di Ugo Nespolo sulla Galleria d’Arte Moderna di Torino, la sua riapertura e il ruolo di istituzioni del genere a pochi anni da un nuovo millennio. Bertolucci fu curioso, non ricordava il brano di Moravia. Soldati era ansioso di andare a cena, e di salutarci entrambi.

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Ho Le due città qui davanti a me. Garzanti, 1964, prima edizione 2 novembre, seconda edizione 25 novembre. La storia di Emilio Viotti, grande successo del dopo guerra, mi ha tenuto compagnia per tutto il primo mese di pandemia. Viaggio nel fascismo e nel cinema tra le due guerre, sullo sfondo l’autobiografia di Soldati medesimo e la figura nitida di Riccardo Gualino rinominato Golzio, è soprattutto la storia dell’amicizia tra il protagonista e il suo amico di sempre, Piero Giraudo, ciclista, fascista, fotografo prima e direttore della fotografia in molti film il secondo. Altri due libri Soldati mi regalò: il doppio volume delle Opere pubblicato da Rizzoli e curato da Cesare Garboli, e Rami secchi, una raccolta di prose autobiografiche uscita sempre da Rizzoli nel 1989. “Stupefacente”, scrive Garboli, “come Soldati riesca a parlare di sé, del proprio ‘io’ come fosse l’anima di qualcun altro”. Quel qualcun altro siamo noi, umanità combattuta tra ragione e passione, tra individuo e società. Soldati ci ha osservati e si è guardato dentro. La sua produzione letteraria tutta ci aiuta a capire chi siamo stati, e chi vogliamo essere.